Un anno di libri 2023

Libri letti 2023

Quest’anno ho consolidato la mia abitudine di leggere al mare, dopo pranzo per l’esattezza, in quei momenti di digestione in cui è necessario pazientare prima di poter tornare in acqua. Leggo ad alta voce, leggo a mia figlia anche se sa leggere da sola, leggo e commento e i discorsi spaziano facilmente da un tema all’altro, mi sento una specie di podcast interattivo. A lei piace e a me pure. Viaggiamo nel tempo e nello spazio per poi tornare a tuffarci, un altro mondo anche quello, fatto di mormore e razze, sogliole e stelle marine, paguri, granchi, anemoni e posidonia.

Quest’anno ho letto due libri, cliccando sui titoli qui sotto si apriranno le pagine delle rispettive recensioni, nel caso in cui ve le foste perse:

1. La rilegatrice di storie perdute di Cristina Caboni (2017)

2. La Matriarca di G.B. Stern (1924)

Per il 2024 ho già in mente quali titoli leggere tra quelli in attesa, a volte da anni, sulla mia libreria, ma stavolta preferisco non svelare nulla, più che altro perché potrei cambiare nuovamente idea strada facendo!

Buon anno nuovo a tutti e continuate a seguirmi!

Con affetto,

Consuelo

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La Matriarca di G.B. Stern (1924)

Ah, la gloriosa epoca dei giveaway! Sono trascorsi ben nove anni da quando ho vinto una copia del romanzo più famoso di G.B. Stern, gentilmente offerto dalla casa editrice Sonzogno che lo ha proposto per la prima volta in Italia. Era il 2014 ed io l’ho messo in valigia nel 2023. Sarò sincera: a casa non trovavo mai il tempo per leggerlo.

La matriarca cover

Non sapevo nemmeno chi fosse G.B. Stern, dal nome credevo si trattasse di un uomo. Come? Sono solo iniziali puntate? Lo so, ma in casi del genere io immagino sempre di default un individuo di sesso maschile. Perché mai non presentarsi con il proprio nome completo? L’ambiguo G.B. Stern nasconde Gladys Bronwyn Stern (1890-1973) nata in realtà Gladys Bertha Stern.

Pare che G.B. Stern fosse un’autrice ben nota nella Londra degli anni Venti e Trenta del Ventesimo secolo, ma a quarant’anni dalla sua morte non si trovava più nessuna delle sue opere in commercio.

Quando nella presentazione ho letto che La Matriarca era stato paragonato ai Buddenbrook di Thomas Mann, diciamo che gli auspici per me non erano dei migliori, visto che una ventina di anni orsono li dovetti studiare all’università per un esame di letteratura tedesca e li trovai noiosi al punto da rammentare ormai solo quell’impressione e nulla della trama.

La prefazione dell’autrice non ha fatto altro che accrescere i miei timori, annunciando una famiglia numerosa con un’esorbitante quantità di zie, cugini e prozii. Ho cercato di essere ottimista confidando nel tono scanzonato e allegro promesso dalla presentazione e nelle rassicurazioni di G.B. Stern secondo la quale sarebbe stato possibile comprendere la storia anche non riuscendo a seguire le descrizioni dei personaggi nel primo capitolo, ma il risultato è stato Bittersweet, agrodolce, come il nome della collana in cui la casa editrice Sonzogno ha inserito il libro.

Mi affascinano gli alberi genealogici, ma questo non è il mio e benché a G.B. Stern sarà risultato probabilmente semplice ispirarsi alla storia della sua famiglia di ebrei cosmopoliti e non praticanti in quanto vicende a lei già note, il risultato espositivo non è all’altezza delle mie aspettative. La confusionaria ridda di personaggi straborda ben oltre il primo capitolo, rendendo difficile memorizzare gran parte dei nomi, dei legami di parentela e delle vicissitudini dei singoli individui.

Riassumendo, la storia si dipana tra il 1805 e la fine degli anni Venti del Ventesimo secolo. Forse perché scritto da una donna, in questo romanzo viene dato grande risalto alle figure femminili, a partire dalla capostipite Babette Weinberg che viveva a Bratislava. Babette sposa il commerciante Simon Rakonitz e Rakonitz diventerà il cognome del clan. Babette si trasferirà prima a Vienna e in seguito a Parigi.

Babette è la nonna della matriarca Anastasia che andrà a vivere a Londra per sfuggire all’assedio di Parigi del 1870. Anastasia è una donna dispotica che vizia i figli maschi e maltratta o ignora le figlie femmine. Rimasta vedova, si fa mantenere dai fratelli, dediti al redditizio commercio di pietre preziose. Spende e spande come se non ci fosse un domani. Viene definita generosa perché è sempre pronta ad aiutare il prossimo. Ma può definirsi tale una generosità che attinge al denaro altrui?

Come se non bastasse, la Matriarca è invadente e vorrebbe pianificare i matrimoni di tutti i familiari, obbligandoli poi a vivere con lei nella sua enorme casa. La cosa peggiore è che quasi sempre riesce ad attuare i suoi perversi piani, grazie alla sudditanza psicologica che esercita nei confronti dei parenti.

Lei però ha fatto sempre di testa sua e ha sposato un cugino. A dire il vero il clan Rakonitz è spesso ricorso ai matrimoni tra consanguinei e il risultato è un eterno ripresentarsi dei cognomi Czelovar, Bettelheim e Rakonitz. Fortunatamente c’è anche chi ha guardato oltre, scegliendosi un partner al di fuori della cerchia familiare, come il padre di Toni Rakonitz, nipote di Anastasia e futura nuova Matriarca. La povera Susie Lake è stata però costretta a vivere per anni nella casa di sua suocera, vittima di un marito succube della propria madre che non voleva lasciarlo andare via.

Nel 1910 l’opulenta famiglia Rakonitz cade in disgrazia a causa di un investimento sbagliato nelle miniere birmane e varie donne della nuova generazione iniziano a lavorare. Tra le protagoniste di questa gradita ventata di modernità c’è la giovane Toni che in breve tempo diventa un’affermata agente di commercio nel settore moda per poi riuscire a coronare il suo sogno di diventare una stilista e aprire il proprio atelier.

Contrariamente a molti romanzi che catturano immediatamente l’attenzione del lettore per poi perdersi strada facendo in inutili divagazioni e finali aperti o comunque non soddisfacenti, La Matriarca esordisce in sordina, con un confusionario guazzabuglio di personaggi, per poi acquisire vigore negli ultimi capitoli con la love story tra i cugini Danny e Toni che in realtà si chiamano Daniel Maitland e Antoinette Rakonitz.

Danny vorrebbe sposare Toni e fuggire con lei lontano dal clan Rakonitz e soprattutto dall’ingombrante nonna Anastasia. Toni ama Danny, ma non vuole commettere lo stesso errore della Matriarca che ha dato vita a una progenie di deboli sposandosi con un cugino. Quando Danny scopre che la sua defunta madre Rakonitz in realtà lo aveva adottato, sembrano non esserci più impedimenti, ma alla fine è lui stesso a fuggire da Toni perché si rende conto che è una dispotica manipolatrice come la Matriarca. Un finale agrodolce, ma positivamente spiazzante.

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Un anno di libri 2022

libri 2022

E anche stavolta è arrivato il momento del consueto recap annuale! Meno libri del solito, ma meglio di niente considerando che li ho letti tutti tra fine agosto e ottobre, riuscendo poi a pubblicare le recensioni solo a cavallo tra novembre e dicembre!

C’è stato il nuovo acquisto che ha deluso le mie aspettative (Questi capelli); un classico da premio Nobel (Canne al vento) in edizione economica che ha atteso per ben sette anni sulla libreria prima di essere portato in vacanza, e durante il viaggio di ritorno verso il porto di Olbia è stato emozionante vedere i cartelli con le indicazioni per Galtellì, Oliena e Nuoro con le pagine di Grazia Deledda ancora fresche nella memoria; e per concludere ben due opere (Alla deriva e Le pause della vita) di Maria Messina, un’autrice che mi ha davvero entusiasmata e che vi consiglio vivamente! Io, approfittando del Black Friday, ho già comprato altri tre suoi romanzi e una raccolta con tutte le sue novelle.

Ecco qui i titoli delle mie letture di quest’anno in ordine cronologico:

1. Questi capelli di Djaimilia Pereira de Almeida (2015)

2. Canne al vento di Grazia Deledda (1913)

3. Alla deriva di Maria Messina (1920)

4. Le pause della vita di Maria Messina (1926)

Un caloroso grazie a voi, lettori di libri e del mio blog da ogni parte del mondo! Felice anno nuovo, con l’augurio che questo 2023 sia per tutti un anno di salute, pace, amore, lavoro, studio, vacanze, viaggi e buone letture!!!

 

 

 

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Le pause della vita di Maria Messina (1926)

Nessuno è perfetto

Nessuno è perfetto in questo avvincente romanzo così potentemente realistico.

Tina è una donna dispotica ed egoista che soffoca le ambizioni dei familiari, ma anche il marito Ubaldo ha le sue colpe. Non c’è un lavoro che gli garbi, a parte dipingere cartoline e calendari e costruire giocattoli di legno, dalla cui vendita ricava però ben poco. Bello mio, va bene inseguire i propri sogni, ma se non ci si campa, allora bisogna ahimè accantonarli.

Ubaldo, oppresso dai rimbrotti della moglie, emigra in Francia insieme a un amico. Invece di assumersi le sue responsabilità fugge. Un perfetto codardo capace di abbandonare persino i figli per non fare più ritorno.

Di questa famiglia allargata fa parte anche Federigo, fratello maggiore di Ubaldo, impiegato delle poste e scapolo. L’uomo si sente responsabile della fuga del fratello, perché non è stato in grado di responsabilizzarlo e così decide di restare a vivere con la cognata e i nipoti.

Tina, ovviamente, se ne approfitta. Fa indebitare il cognato con un usuraio perché si è incapricciata di una casa di campagna che le ricorda quella dei nonni. Un bel calcio nel sedere si sarebbe meritata! Vuoi la casa? Compratela da sola, cara Tina! Vai a lavorare come si deve, perché se tutti come te si limitassero alle faccende domestiche di casa propria, nessuno li racimolerebbe i dindini.

Le_pause_della_vita-Croce

Ma Federigo è un fesso, un debole e si rovina la salute per la cognata. Dare tanto senza chiedere niente. Martirizzarsi così per un’ingrata. Inconcepibile. Indubbiamente, Federigo si merita la sventura per la sua stoltezza, eppure rimane pur sempre un’ingiustizia.

Tina tratta con freddezza i contadini al suo servizio, come se lei fosse invece una gran signora, però poi critica la figlia Paola che vuole seguire la moda pur essendo povera. Ah, le contraddizioni della vita! Anche la povertà in fondo è relativa. Se Paola è povera, allora i contadini cosa sono?

Carlo è il fratello di Paola, nonché figlio prediletto di sua madre Tina. Il giovane frequenta l’università, dove studia medicina finché non scoppia la Grande Guerra ed è richiamato al fronte.

Paola, al contrario, non arriva nemmeno al diploma. Cara mia, va bene che tua madre ti odia, però tu pure ci metti il carico da somarella facendoti bocciare ripetutamente. L’idea di lavorare come maestra non ti allettava, e ti capisco, ma nella vita bisogna pur fare qualcosa di concreto. Tu, invece, piuttosto che impegnarti nello studio te la passavi a invidiare le compagne più ricche che andavano al cinematografo! Ma pensa invece a chi la giornata la passa a zappare! E anche oggigiorno, oltre un secolo dopo, non è che tutti abbiamo la domestica!

Una sera Federigo si corica tremando, dopo aver già avvertito un malore al lavoro, e non si risveglia più. Il pover’uomo crepa senza essere nemmeno riuscito a godersi la pensione, sfiancato dai debiti e dal lungo tragitto a piedi quotidiano, dalla campagna alla città e viceversa. E tutto per colpa del capriccio di Tina e le sue aspirazioni da signorotta campestre, ricordiamolo. Assassina!

Con la morte dello zio, dipendente modello, e la gran quantità di uomini partiti per combattere, Paola riesce a ottenere un impiego precario alle poste, ma invece di socializzare con le colleghe, preferisce leggere un romanzo in inglese e dilettarsi nella sua traduzione in italiano.

Finito il turno, prima di incamminarsi verso casa, è solita incontrare Matteo, che conosce dai tempi della scuola e con il quale ha intrapreso una casta relazione segreta. Il giovane la vorrebbe sposare, ma deve prima concludere i suoi studi universitari in un’altra città. Matteo è determinato, Paola molto meno. La loro relazione sopravvivrà alla distanza?

La guerra volge al termine, ma Carlo non torna. Lavora in un ospedale di Milano e delude la madre sposando Piera, una ragazza senza dote.

Tina salda il debito del cognato Federigo, ma Paola perde il suo impiego alle poste perché i reduci hanno la precedenza sulle donne. Matteo le scrive e lei non gli risponde, poi però si lamenta fra sé e sé della crescente freddezza delle sue lettere. Paola mia, tu non sei normale!

Dopo due anni di lontananza, Carlo ottiene un posto nell’ospedale della città vicina alle campagne di San Gersolè dove vivono la madre e la sorella. Nel frattempo ha avuto un bambino che ha chiamato Ubaldo come suo padre. La moglie Piera ha la cameriera in casa e tratta suocera e cognata con altezzosa freddezza.

Un giorno Paola, accompagnando una delle contadine a vendere le uova, conosce un pittore che sta ridipingendo gli affreschi di una villa della zona. La giovane è felice di scambiare due chiacchiere con lui, evadendo così dalla trita monotonia della sua vita appartata.

Lo incontra nuovamente per caso durante una passeggiata e poi di proposito le volte a venire. Tito Campi la seduce facilmente, troppo forte è il desiderio di Paola di dimenticare la madre e la casa, salvo poi rinsavire e correre via dopo il suo unico rapporto con il pittore.

Paola non torna più nel bosco. Si sente umiliata e sa di non amare quell’uomo. Ma allora perché lo hai fatto, Paola? La verità è che sei solo una ragazza annoiata che si è scavata la fossa da sola.

Dopo essersi resa conto di essere rimasta incinta, Paola decide di scrivere a una sua amica di scuola che vive a Firenze, senza però rivelarle il suo stato, e Maria Granelli immediatamente la invita come chiestole.

La signora Tina, severa come sempre, non vuole che sua figlia viaggi da sola in treno. Paola allora, disperata, tenta di togliersi la vita con la rivoltella del fratello.

La madre furibonda esige spiegazioni, ma Paola riesce ad alludere alla sua condizione solo parlando con Carlo.

La gravidanza di Paola sconvolge la sua famiglia. La signora Tina ha un attacco cardiaco mentre Carlo e la consorte sono unicamente preoccupati per la loro reputazione.

Matrimoni riparatori non sono possibili. Carlo si è informato e il pittore forestiero ha già moglie e figli a Roma. Non resta che mandare via Paola, prima che la gente mormori. Carlo accompagnerà perciò la sorella dalla sua amica a Firenze.

Maria Granelli ha una bella casa e suo marito Giovanni è un avvocato. Carlo però le ha detto che Paola è incinta e ora Maria deve trovare il modo di allontanare l’amica prima che la gente inizi a parlare e così le trova una stanza in affitto.

Maria la capisco, le sbolognano l’amica incinta a tradimento e lei in fondo le fa già un gran favore mostrando la sua traduzione al marito che, grazie alle proprie conoscenze, la fa pubblicare, riuscendo lì dove Paola aveva fallito, quando aveva atteso invano la risposta dell’editore a cui aveva scritto.

Purtroppo è questa la triste verità: oggi come ieri, il talento spesso non basta.

Ripresasi dall’infarto, la signora Tina si ostina a tornare a San Gersolè per sorvegliare il lavoro dei contadini di cui ha sempre diffidato, ma soprattutto perché quello è l’unico luogo che la rende felice.

È infastidita per la damigiana d’olio che Carlo ha mandato alla Granelli per disobbligarsi, oltre a una botticina di vin santo e un sacchetto di farina dolce. Vecchia spilorcia! Hai mollato la patata bollente a un’altra persona e nemmeno ti vuoi sdebitare. Tua figlia sarebbe dovuta restare a casa con te, in quella dimora campestre che piace solo a te e in cui tu l’hai fatta crescere isolata dal mondo. Ma no, bisognava proteggere la reputazione del tuo figlio dottore!

Tina, Tina, avresti dovuto pensarci prima a Paola! Cosa volevi? Tenertela come badante per la vecchiaia? Non hai mai provato a trovarle un marito o un nuovo lavoro. Non ti sei curata a dovere del suo avvenire.

E sei pure convinta di non esserti mai appoggiata agli altri e di aver fatto sempre tutto da sola. Ti sei già dimenticata di tuo cognato? Con quali soldi hai comprato casa e terra?

Ma adesso stai per scontare i tuoi peccati, Tina. Il tuo adorato Carlo vuole vendere la tua proprietà di San Gersolè.

Carlo vorrebbe che sua madre si trasferisca definitivamente a casa sua, ma Tina si ostina a fare avanti e indietro finché torna con la febbre. Si è presa la polmonite e, con il suo cuore già indebolito, l’esito non potrà che essere fatale.

Carlo manda a chiamare il parroco, ma Tina non trova peccati nella sua coscienza! Ostinatamente cieca fino all’ultimo respiro!

Paola ha perso il bambino, la sua traduzione è stata pubblicata e, appena saputo della morte della madre, lascia Firenze.

Piera, ritenendo che Paola non amasse Tina, è seccata e sorpresa dalla visita della cognata. Paola trova Piera imbruttita e sformata dalla nuova gravidanza, ma sa che lei non deve vergognarsi del suo stato.

Sì, Piera non si è scioccamente concessa al primo pittorucolo incontrato per caso, ma fatto sta che resta comunque una spocchiosa vacca il cui unico compito nella vita sembra quello di sfornare i figli del dottore, come se fosse la consorte di un sovrano a cui deve assicurare la discendenza.

Sia Carlo che Piera vogliono sapere che intenzioni abbia Paola. Partire o restare? Carlo vorrebbe vendere il podere, ma se Paola decidesse di restare avrebbe una piccola rendita sicura.

Paola preferisce andarsene e trovarsi un lavoro. In fondo, la campagna non le era mai piaciuta e adesso, senza la madre, è finalmente libera.

Carlo non la trattiene. Anche lui, come la moglie, è stanco di occuparsi della sua vecchia famiglia. Ma potevi restartene direttamente a Milano, dottorino viziato dei miei stivali!

Paola torna a Firenze. Le vendite della sua traduzione vanno bene e l’editore le affida un altro romanzo inglese da tradurre. Dovrà lavorarci la sera, perché di giorno dà lezioni private. Stavolta non sarà come la prima, perché c’è una scadenza da rispettare e non potrà gingillarsi per anni con lo stesso libro. Eh, Paola! Tu ti impensierisci, ma c’est la vie! Così è il lavoro!

Matteo, il suo vecchio amore, ora vive anche lui a Firenze dove ha un impiego come professore di ginnasio e abita con la madre e la sorella che sicuramente dipendono economicamente da lui. Giacomina, la sorella, vorrebbe anche scegliergli la moglie. Parassita invadente!

Matteo ha scoperto che Paola è in città e la va a trovare nella pensione in cui abita. Lui è ancora bello come un tempo, mentre Paola è già sfiorita, ma lui l’ama ancora ed è finalmente pronto a sposarla.

Matteo promette di tornare l’indomani, ma Paolina sparisce prima. Abbandona tutto di punto in bianco, lezioni e traduzione e si fa suora! E tutto questo per non dover affrontare di nuovo Matteo, al quale sa di non poter mentire, ma a cui non ha il coraggio di dire la verità e cioè confessare i suoi momenti di debolezza con il pittore.

Masochismo puro! E qualche frustata non ce la mettiamo, Paolina? Visto che ti piace tanto flagellarti!

La verità è che sei una codarda, un’insicura e un’introversa rovinata da una madre egoista e autoritaria e una morale fondata sul peccato che ti fa sentire peggio di un’assassina.

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Alla deriva di Maria Messina (1920)

Un avvincente romanzo malinconico

Il siciliano Marcello Scalia, proveniente da una famiglia modesta, si trasferisce in Toscana per studiare all’università e, divenuto uno dei discepoli prediletti del professore Montebello, inizia a frequentarne la casa dove conosce la figlia Simonetta di cui si innamora.

Marcello, che deve contendersi le attenzioni della giovane con il benestante compagno di studi Angelo Fiore, rimane sinceramente sorpreso quando Simonetta ricambia i suoi sentimenti.

La coppia si fidanza nonostante l’ostilità del padre di lei. Il neolaureato in lettere Marcello Scalia sogna di diventare professore universitario e autore di dissertazioni come il futuro suocero ma è costretto a ripiegare sull’insegnamento nelle scuole.

Alla deriva cover

I risparmi di un anno e mezzo di lavoro a Macerata se ne vanno per il viaggio di nozze. Marcello non vuole che manchi nulla alla sua principessina nata da madre inglese e cresciuta con la servitù in casa, ma così facendo il denaro non sarà mai abbastanza, nonostante gli introiti extra derivanti dall’impartizione di lezioni private e la stesura di testi scolastici.

Marcello lavora sempre e Simonetta si annoia. Questo non va bene. La coppia ha persino una cameriera in casa! Ma se Simonetta non ha nulla da fare! Che inutile sperpero di denaro!

Marcello non aspira ad avere figli, ma non fa nulla per evitare che la moglie resti incinta. E che si aspettava? Un genio, praticamente!

La coppia è sempre più distante. Simonetta invita il padre all’insaputa del marito e riparte con lui. Marcello, pur addolorato, riesce finalmente a lavorare alla stesura di un saggio che un editore accetta di pubblicare.

Ora che è in pensione, il professore Montebello ha perso parte dei suoi guadagni e la sua popolarità va scemando. È pieno di debiti, ma vuole sposare un’allieva per sentirsi più giovane.

Simonetta capisce di dover tornare dal marito, ma lo ritrova in preda a un esaurimento nervoso. Il loro bambino nasce prematuramente e la donna muore di lì a poco, dopo essersi riconciliata con il coniuge. Il vedovo Marcello decide di arruolarsi per la Grande Guerra e affida il neonato allo zio che lo porterà in Sicilia.

Alla deriva è un romanzo malinconico e dal finale drammatico, eppure così avvincente da farsi leggere in un solo giorno.

Riscoprite Maria Messina, una talentuosa scrittrice dalla vita sfortunata, le cui opere sono cadute a lungo nell’oblio!

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Canne al vento di Grazia Deledda (1913)

Un romanzo da premio Nobel

Nel 1926, la scrittrice sarda Grazia Deledda vince il Nobel per la letteratura grazie al romanzo Canne al vento, pubblicato nel 1913, prima a puntate e poi in volume.

Efix è il fedele servo delle sorelle Pintor e per loro coltiva un poderetto, ultimo terreno ancora di proprietà di questa nobile famiglia caduta in disgrazia, i cui antenati erano stati baroni di Galte.

Sin dalla prima pagina, la Sardegna emerge prepotentemente come parte integrante del romanzo, con le sue siepi di fichi d’India e le coltivazioni di mandorli, a cui si affiancano le credenze di Efix, parimenti intrise di cristianesimo e reminiscenze pagane.

La monotona quotidianità di Efix e delle sue padrone, viene scossa dall’arrivo di un telegramma del giovane Giacinto, nipote di queste ultime.

Tale notizia basta per riportare la mente del servo al florido passato dei Pintor, bruscamente interrotto dalla morte di donna Cristina. Don Zame, rimasto vedovo, “tiene chiuse dentro casa come schiave le quattro ragazze in attesa di mariti degni di loro. E come schiave esse dovevano lavorare, fare il pane, tessere, cucire, cucinare, saper custodire la loro roba: e soprattutto, non dovevano sollevar gli occhi davanti agli uomini, né permettersi di pensare ad uno che non fosse destinato per loro sposo. Ma gli anni passavano e lo sposo non veniva. E più le figlie invecchiavano più don Zame pretendeva da loro una costante severità di costumi. Guai se le vedeva affacciate alle finestre verso il vicolo dietro la casa, o se uscivano senza suo permesso. Le schiaffeggiava coprendole d’improperi, e minacciava di morte i giovani che passavano due volte di seguito nel vicolo.”

Donna Lia, la terza delle figlie, una notte fugge di casa, disonorando il padre e l’intera famiglia. Una mattina, don Zame viene trovato morto sul ponte vicino al paese. Lia si sposa con un commerciante di bestiame e si stabilisce con lui a Civitavecchia, dove la coppia ha un figlio. Le sorelle non le perdonano nemmeno questo nuovo errore, il matrimonio con un plebeo, e continuano a non rispondere alle sue lettere.

Crescendo, Giacinto inizia a scrivere alle zie ogni anno per Pasqua e per Natale. Passa il tempo e prima muore il padre e poi la madre. Rimasto orfano, Giacinto esprime il desiderio di trasferirsi da loro e trovare un nuovo lavoro, perché l’impiego all’Ufficio della Dogana non è di suo gradimento. Nel telegramma, il giovane annuncia il suo arrivo di lì a pochi giorni, ma le tre dame Pintor attendono invano il nipote per settimane.

Noemi è sola in casa quando Giacinto bussa al portone. È biondo, porta i baffi e ha gli occhi di un azzurro verdognolo. Con sé ha una bicicletta a cui ha legato una valigia. Ha intenzione di recarsi a Nuoro, dove l’amministratore di un mulino a vapore, amico di suo padre, gli ha promesso un lavoro.

Efix accompagna il giovane alla festa di Nostra Signora del Rimedio per fargli conoscere Ester e Ruth. Il bel forestiero riscuote un immediato successo e di lui si invaghiscono seduta stante sia Natòlia che Grixenda, rispettivamente la serva del prete e la nipote di una vicina di casa delle dame Pintor. Grixenda ha la meglio e Giacinto la vuole sposare, ma le zie non sono d’accordo e anche Efix cerca di fargli cambiare idea perché la ragazza è orfana e povera.

Il tempo passa e Giacinto spende a più non posso, bevendo vino con don Predu (il cugino ricco delle zie) e giocando d’azzardo con il Milese (il commerciante che ha fatto fortuna in paese). In preda alla malaria, il giovane confessa al servo Efix di aver perso il lavoro alla Dogana per non aver versato, ma giocato e perso, i soldi di un capitano di porto. Giacinto è dunque uno spregevole vizioso! Continua a giocare e per giustificarsi con Efix gli dice che giocando tante volte si guadagna e lui vuole guadagnare per le sue zie. A zappare lo metterei io il damerino! Come se non bastasse, è già in debito con zia Kallina, l’usuraia del paese. Si è fatto firmare una cambiale da don Predu, che spera di impossessarsi del poderetto delle cugine, e in un’altra ha persino falsificato la firma di sua zia Ester! Infame traditore, parassita e ladro! Invidioso dei ricchi, ma non vuole alzare un dito! Gli piace fare la bella vita a spese degli altri! Che le fiamme dell’inferno in terra divorino la feccia umana come lui! Il rogo ci vorrebbe!

Se Giacinto è una carogna, Efix è invece uno stolto! Anno dopo anno, le sue padrone trovano sempre scuse per non pagargli il dovuto, ma lui chiede denaro in prestito a zia Kallina e resta al loro servizio come un cagnolino fedele o per meglio dire uno zerbino! Che rabbia mi fa! Come si può essere così idioti?

Arriva luglio e Giacinto si è ormai ridotto a fare il servo del Milese che lo manda in giro per gli acquisti. Sua zia Noemi si è invece segretamente innamorata di lui, ma promette alla nonna di Grixenda di parlare con il nipote per convincerlo a sposare la ragazza. I propositi della nobildonna vengono tuttavia stravolti da un’ingiunzione di pagamento in cui Caterina Carta chiede a Ester Pintor la restituzione di duemilaseicento lire entro cinque giorni. La firma è falsa. Ester non è tenuta a saldare il debito e Giacinto finirà in prigione. A me pare cosa buona e giusta e a Noemi pure, ma Ester in perfetto spirito cristiano preferirebbe pagare, anche a costo di dover poi chiedere l’elemosina! Ma così quando imparerà a comportarsi quel giovinastro da strapazzo?

Ester decide di chiedere una proroga a Kallina e Noemi cerca qualcuno che vada a chiamare Efix, ma l’unico a passare di lì è don Predu. In preda alla disperazione, la donna racconta tutto all’odiato cugino che con sgomento si accorge che donna Ruth, seduta immobile, è in realtà appena morta di crepacuore.

Noemi ordina a Efix di trovare Giacinto per dirgli di non tornare più in paese. Il giovane, già al corrente del decesso della zia Ruth, si è trattenuto a Oliena. Ha saputo inoltre che è stato Efix a uccidere suo nonno don Zame tanti anni prima e, incalzato dai rimbrotti del servo, lo aggredisce. Lui, Giacinto, avrà pure sbagliato, ma è giovane e può imparare! Così si difende l’insolente recidivo! Miserabile svergognato! Efix, che è un assassino, dovrebbe comprenderlo e non condannarlo! Assurdo! Il servo ha tolto la vita al padrone solo per pura autodifesa e poi, di boriosi maschilisti come il caro nonnino, il mondo può farne tranquillamente a meno! Ma come può comprenderlo Giacintino bello, se è fatto della stessa pasta? Lui che proibisce a Grixenda di uscire di casa e lavorare, costringendo la nonna della ragazza a tribolare anche per lei?

Efix rivela a Giacinto i sentimenti (non ricambiati) che nutriva per donna Lia e di come lei se ne fosse servita per fuggire. Approfittatrice. Vittima del padre e carnefice del servo. Una volta compreso il ruolo di Efix, don Zame lo aveva aggredito, ma era stato lui a perdere la vita. Non aveva confessato il delitto solo per poter restare accanto alle altre sorelle e provvedere a loro. Stolto d’un Efix, condannato dal suo senso di colpa! Servo per sempre di zitelle che non potrebbero vivere senza di lui, ma che si sentono superiori in virtù della loro nobiltà! Inconcepibile!

Pare tutto così arcaico, o forse no? Non viviamo in fondo in una società in cui, a oltre cent’anni di distanza dal romanzo deleddiano, il popolino compiange la dipartita dell’anziana sovrana di un altro Paese, una monarca su cui grava il sospetto, ovviamente mai provato, di aver ordinato il prematuro eterno riposo della nuora, vittima tra l’altro dell’infedeltà del consorte che ora siede sul trono che fu della madre insieme all’amante di un tempo, ormai legittimata dal matrimonio? Pare assurdo, eppure di Efix è ancora pieno il mondo! Ma foss’anche la regina stata una santa, che senso ha il perdurare stesso dell’esistenza di monarchie e titoli nobiliari?

Dopo lo scontro con Efix, Giacinto si reca finalmente a Nuoro e trova un lavoro. Ester però ha ipotecato sia il poderetto che la casa in cambio di tre mesi di proroga da Kallina. Efix spera che Giacinto riesca a pagare, ma don Predu l’ha visto con le scarpe rotte e sa che ha venduto pure la bicicletta. Il servo ora dovrebbe convincere le sue padrone a vendere il terreno a don Predu che salderà il debito e lascerà loro la casa. Efix accetta di parlare con le dame, ma in cambio gli chiede che sposi donna Noemi. Con don Predu, le sue padrone avrebbero un avvenire assicurato. Ester accetta di vendere il poderetto, saldando così la cambiale. Efix lo coltiva a mezzadria e consegna la sua porzione di raccolto alle antiche padrone.

In primavera, a quasi un anno dall’arrivo in Sardegna di Giacinto, il quarantottenne don Predu decide finalmente di chiedere la mano di Noemi, che avrà circa trentacinque anni e che sostiene di aver sempre amato. Prima della richiesta ufficiale, invia però Efix a sondare il terreno e grande è la delusione del servo di fronte al rifiuto della donna.

Uscito dalla casa delle sorelle Pintor, Efix viene chiamato al capezzale della moribonda zia Pottoi che lo supplica di andare da Giacinto per ricordargli che ha promesso di sposare sua nipote. Ed Efix ovviamente va, sempre al servizio di tutti meno che di se stesso. Cammina per due giorni fino a Nuoro.

Giacinto lavora al mulino, dove pesa la farina, ma non vuole sposare Grixenda perché sente di doversi prima sdebitare con le zie. Efix cerca di convincerlo dicendogli che se sua zia Noemi non accetta di sposare don Predu è per colpa sua. Il giovane ammette di essersi accorto dei sentimenti della zia nei suoi confronti e di essere andato via perché anche lui provava lo stesso per lei.

Le parole del servo convincono Giacinto a sposare Grixenda ed Efix è pronto a espiare i suoi peccati. Davanti a una chiesetta conosce un cieco a cui è appena morto il compagno con cui mendicava e decide di unirsi a lui. No, Efix, perché? Il senso di colpa che ti ha rovinato la vita è il tuo vero peccato e lo spasmodico fervore religioso la tua rovina. La verità è che sei un masochista, sempre pronto a umiliarti, flagellarti ed ergerti a martire. Che delusione! Il vero protagonista del romanzo che si riduce a questo!

Per alcuni mesi Efix accompagna il giovane cieco di chiesa in chiesa, da un paese all’altro, rimanendo deluso dai litigi e dall’invidia da cui i mendicanti non sono certo immuni. Un giorno, il suo compagno Istène arriva a smascherare un finto malato che sta riscuotendo un grande successo, scatenando l’ira dell’anziano cieco che è con lui. Durante la zuffa, il falso malato fa perdere le proprie tracce e così ora Efix ha ben due ciechi sul groppone.

Una notte, mentre si è assopito, il vecchio cieco lo alleggerisce di tutto il denaro e fugge, ma Efix è contento di avere una persona in meno a cui badare. Il giovane cieco è invece furibondo, perché lui aveva capito subito che il ladro in realtà ci vedeva. Istène non vuole più Efix al suo fianco perché è uno stupido, e come dargli torto? Ritrovato casualmente il finto cieco, piuttosto se ne va con lui.

Efix è libero di tornare al poderetto, dove apprende dal fratello di Grixenda che la ragazza sposerà finalmente Giacinto. Il servo raggiunge poi la casa delle dame Pintor e Noemi, alla notizia dell’imminente matrimonio di suo nipote, si rassegna e accetta di sposare il cugino.

Efix torna a lavorare al poderetto, ma la sua salute è ormai irrimediabilmente compromessa. Quando le sue condizioni peggiorano, si trascina fino alla casa delle sorelle Pintor e il medico lo invita a mettersi a letto, ma Efix si ostina a restare coricato sulla stuoia perché vuole morire da servo. Assurdo! Fino all’ultimo non si smentisce! Efix, più che un servo sei uno schiavo, schiavo delle tue convinzioni assurde e dell’assoluta mancanza di amor proprio. È per questo che tutti ti maltrattano e nessuno ti rispetta!

Il servo agonizza per giorni su quella stuoia e muore solo, mentre donna Noemi e don Predu si sposano. Che finale crudele! Se non si fosse rovinato la salute con le sue mani, Efix probabilmente avrebbe avuto ancora mezza vita davanti!

Perché Grazia Deledda ha scelto di far crepare il servo? Non c’è forse una vena di classismo in tutto ciò? Ha fatto (assai poco credibilmente) rinsavire quel delinquente recidivo di Giacinto e smosso il cuore del superbo don Predu… E il povero Efix? Non meritava forse una moglie anche lui, una stabilità economica, una vita?

Grazia Deledda ha vinto il premio Nobel per la letteratura nel 1926, ma così sarebbe stato se Mussolini non avesse fermato la candidatura di Matilde Serao per le sue posizioni notoriamente antifasciste?

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Questi capelli di Djaimilia Pereira de Almeida (2015)

Un’accattivante sinossi che non lascia presagire l’ostico flusso di coscienza

Nell’introduzione, l’autrice accenna al viaggio in Brasile di un certo Lévi-Strauss e solo grazie a Google e Wikipedia ho scoperto che Claude Lévi-Strauss è stato un antropologo francese che tra il 1935 e il 1938 si è dedicato allo studio di alcune popolazioni indigene brasiliane.

Questi capelli cover

L’incomprensibile citazione “Ah! La Francia! Anatole, Anatole!” è tratta da Tristi tropici del suddetto Lévi-Strauss. Grazie ancora, Google, per dissipare le tenebre dell’ignoranza in cui la signora Djaimilia ha ben pensato di lasciare quei lettori che non condividono il suo stesso bagaglio di conoscenze!

Leggendo la pagina dell’opera di Lévi-Strauss da cui sono state estrapolate le poche enigmatiche parole menzionate, si scopre che durante la sua permanenza in Brasile, l’antropologo era stato oggetto di ammirazione in quanto connazionale di Anatole France.

Di nuovo Google, di nuovo Wikipedia. Anatole France è stato uno scrittore francese, vincitore del Premio Nobel per la letteratura nel 1921, ma ben presto caduto nell’oblio dopo la sua morte.

Ma vi sembra normale dover compiere tutte queste ricerche per tentare di decifrare un’unica pagina di un memoir/romanzo postcoloniale in cui l’autrice dovrebbe parlare delle proprie origini miste portoghesi e angolane e del razzismo di cui è stata vittima a causa dei suoi capelli crespi?

Cara Djaimilia, meno egocentrismo, meno elitismo, please. Più fatti, più azione e meno sfoggio di criptiche elucubrazioni filosofeggianti fini a se stesse. La narrazione ne gioverebbe assai.

Dopo l’introduzione, ovviamente sono passata al primo capitolo e, bisognosa anche qui di alcune delucidazioni, mi sono imbattuta su Google in un estratto della versione in inglese del libro, molto più esplicativa di quella in italiano. Trattandosi in entrambi i casi di traduzioni, come è possibile che mi sia risultata più ostica quella nella mia lingua madre? Mi sorge il dubbio che la traduzione in inglese sia di qualità superiore. Mi sono pentita di aver acquistato il libro in italiano, ma a questo punto non mi resta che tentare di decifrare quanto ho tra le mani.

L’infermiere caposala Castro Pinto è il nonno nero di Djaimilia. La nonna nera, invece, si chiama Maria da Luz.

Castro Pinto, in Portogallo, lavora come addetto alle pulizie fino al giorno della sua morte. Era nato in Angola, figlio di un pescatore albino con i capelli biondi.

Castro arriva in Portogallo nel 1984 per fare curare uno dei suoi figli, nato con una gamba più corta dell’altra, in un ospedale di Lisbona. Dieci anni dopo, lo raggiungono anche la moglie e altri figli.

Nonna Lúcia e nonno Manuel sono invece i nonni paterni di Mila (Djaimilia). Il padre di nonna Lúcia era un commerciante portoghese nell’odierna Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo. La moglie diede alla luce Lúcia e altri due bambini, ma morì di tubercolosi alcuni anni dopo. Rimasto vedovo, il commerciante mandò i suoi figli in Portogallo, dove vennero cresciuti da due cugine della defunta consorte. Il fratello di Lúcia diventò vescovo, mentre sia lei che sua sorella diventarono professoresse.

All’età di diciannove anni, Lúcia sposa l’ingegnere Manuel e la coppia emigra in Mozambico, dove Manuel avrebbe lavorato alla costruzione di dighe per conto di una compagnia idroelettrica.

La maggior parte dei figli della coppia nasce in Mozambico, poi la famiglia si trasferisce a Luanda, in Angola, e qui ricompare il bisnonno commerciante di Mila che bussa alla porta di Lúcia. È tornato per morire.

Ad un certo punto, l’autrice accenna al problema delle palme portoghesi infestate dal Rhynchophorus ferrugineus: “I coleotteri sono volati dalla Polinesia e dall’Asia orientale fino all’Europa meridionale e hanno devastato le palme dall’Algarve fino a Lisbona. Mi chiedo quanto sarà durato il volo.”

Innocente creatura! Crede che il punteruolo rosso della palma abbia attraversato mezzo mondo volando! La vera causa della sua rapida diffusione è il commercio internazionale di palme!

Nonna Maria, resa paralitica da una trombosi, trascorre le sue giornate in casa, uscendo solo per la funzione domenicale, accompagnata in auto dai suoi confratelli della congregazione dei Testimoni di Geova.

All’età di tre anni, Mila arriva in Portogallo dall’Angola, dove è nata nel 1982. I suoi genitori si sono conosciuti a Luanda alla fine degli anni Settanta. I nonni paterni Lúcia e Manuel, al contrario di tanti connazionali, sono tornati in Portogallo solo da pensionati e non dopo l’indipendenza dell’Angola avvenuta nel 1975.

In famiglia, Mila è l’unica della sua generazione a essere stata battezzata. Una delle sue bisnonne, la madre di suo nonno Manuel, era invece un’ebrea figlia unica di un medico vedovo. La bisnonna suonava il piano, parlava francese e sposò un ufficiale dell’esercito di più umili origini.

L’autrice, nel suo albero genealogico vanta persino una trisavola di Macao, sposata con un colonnello di stanza nella colonia e da cui ha ereditato gli occhi a mandorla della sua infanzia.

Il padre di Mila aveva i capelli biondi e nonna Lúcia neri.

Il giudaismo di nonno Manuel viene messo a tacere dalla Seconda Guerra Mondiale, ma soprattutto dal cattolicesimo di nonna Lúcia, i cui figli sono però tutti atei. Mila riceve il battesimo quando ha già undici anni. Abita con i nonni paterni e vede sua madre, che vive in Angola, solo durante le vacanze. Suo padre, invece, negli anni Novanta sposa una portoghese.

Mila, da adulta, ha un marito e lavora in un ufficio.

Djaimilia spende tante parole per i nonni, sia paterni che materni, e ben poche per i suoi genitori. Troppi interrogativi restano aperti. Perché il padre e la madre di Mila si separano? Che lavoro fanno? E la stessa Mila? Perché sua madre resta a vivere in Angola nonostante abbia figlia, genitori, fratelli e nipoti in Portogallo? In che circostanze il padre conosce la donna che sposa negli anni Novanta? Perché Mila viene cresciuta da nonna Lúcia e nonno Manuel? E chi è il misterioso marito?

Questi capelli è una lettura faticosa e che non invoglia a voltare pagina. Djaimilia si abbandona a un’inarrestabile flusso di coscienza, dando vita a un caotico guazzabuglio di luoghi, tempi, temi e persone. Un fritto misto, un minestrone, di tutto un po’ nel calderone, per non parlare della sfilza di marche di fama non certo mondiale che contribuisce ad appesantire il testo, zavorrandolo in una specificità spazio-temporale e impedendogli così di anelare al sommo valore letterario dell’universale.

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Un anno di libri 2021 – A Year of Books 2021

libri 2021

Quest’anno ho letto 5 libri (4 in italiano e 1 in inglese). Eccovi il riepilogo in ordine cronologico (cliccate sui titoli per leggere le recensioni):

This year I have read 5 books (4 in Italian and 1 in English). Here is the recap in chronological order (click on the titles to read the reviews):

  1. “Giù le zampe dal nostro mare!” di Geronimo Stilton (2019)
  2. Ayesha Dean – The Seville Secret by Melati Lum (2019)
  3. Il cuore selvatico del ginepro di Vanessa Roggeri (2013)
  4. Fiore di fulmine di Vanessa Roggeri (2015)
  5. La rinnegata di Valeria Usala (2021)

Buon 2022 a tutti!!!

Happy 2022 to you all!!!

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La rinnegata di Valeria Usala (2021)

La bella e intraprendente Teresa, moglie di Bruno Murru, vive nell’immaginario paese dell’entroterra sardo di Lolai e gestisce sia un emporio che una taverna. Per quanto instancabile, la signora Murru alla fine ha però dovuto assumere la giovane Rita per occuparsi dei tre figli mentre Bruno è ricorso a Tore come bracciante, per badare al bestiame e per vegliare su Teresa e i bambini in sua assenza. Maddalena ha otto anni e Francesco ne ha sei, mentre il piccolo Emilio è nato solo da poche settimane.

La rinnegata di Valeria Usala - cover

Teresa ha iniziato lavorando come serva dai Collu, famiglia di proprietari terrieri del luogo, finché all’età di diciotto anni ha conosciuto il minatore Bruno nella casa del suo padrone Vincenzo. Dopo essere rimasta incinta, Teresa avrebbe voluto sposarsi in chiesa, ma si è dovuta accontentare di un matrimonio civile visto che il parroco si è rifiutato di celebrare la loro unione per via dell’ateismo di Bruno.

Con i soldi della liquidazione di Bruno, i coniugi Murru hanno comprato un piccolo terreno e da lì è iniziata la loro fortuna, divenuta ben presto oggetto di invidia e maldicenza.

Gli uomini di Lolai al mattino amano riunirsi di fronte alla casa di Teresa solo per vederla, suscitando così la gelosia delle mogli che però non hanno alcuna intenzione di lasciare perché loro, al contrario di Teresa, sono sottomesse e ubbidienti.

Le donne, meno schiette degli uomini, si recano invece in chiesa dove da perfette ipocrite e in totale contrasto con l’autentico spirito cristiano inframmezzano le loro preghiere con parole di disprezzo per Teresa. Le donne di Lolai si limitano a essere mogli e madri e detestano Teresa per la sua volontà di distinguersi scegliendo la strada del profitto. L’unica voce fuori dal coro è l’anziana Maria, considerata da tutti la bruja, cioè la strega, del paese.

Rincasando, Maria passa per il ruscello e i ricordi la portano indietro di trent’anni, a quando era solo una quindicenne appena arrivata a Lolai. Trenta più quindici uguale quarantacinque… L’anziana Maria ha dunque solo quarantacinque anni? Pare sorprendente, eppure un tempo si invecchiava sicuramente prima.

I genitori di Maria lavoravano per il signor Collu, che aveva accumulato vari possedimenti grazie ai proventi della compagnia mineraria di cui era a capo.

Un giorno, mentre va a prendere l’acqua al ruscello, Maria si imbatte in un ragazzo di nome Vincenzo che ha due anni meno di lei e che scopre essere figlio dei nuovi padroni.

Vincenzo la guarda e le parla in modo sfacciato. Il signorino vuole solo approfittarsi della serva? Il giovane Vincenzo Collu è lo stesso uomo poi sposato con una certa Margherita per il quale anni dopo lavorerà l’ignara Teresa. L’attrazione tra Maria e Vincenzo sembra immediata e reciproca, ma il loro diverso status sociale non promette nulla di buono per la ragazza.

Vincenzo e Maria iniziano a frequentarsi di nascosto finché lei inizia ad avere la nausea e vomita davanti alla madre. Ovviamente è incinta. Ah, l’ignoranza è proprio una brutta bestia!

L’ingenua Maria crede che Vincenzo la sposerà, ma il ragazzo si lascia invece convincere fin troppo facilmente ad accettare il matrimonio combinato con Margherita, figlia di un amico del padre. Perché è tutto così prevedibile?

Maria mette al mondo una bambina e la chiama Teresa… Teresa la moglie di Bruno Murru è forse figlia di Maria la strega?

Ferita dal rifiuto dell’arrendevole Vincenzo, Maria preferisce dedicarsi ai lavori domestici delegando a sua madre la cura della neonata finché un giorno, vedendo Vincenzo ridere insieme alla sua promessa sposa, aggredisce l’ignara rivale e incalza lui a parole che però, in un’apoteosi di falsità e spregevolezza, la liquida come una semplice serva. Maria non può sopportare oltre e decide di abbandonare la casa dei Collu e una figlia che non sente sua.

Dopo aver camminato per un giorno intero, la diciassettenne Maria incontra un anziano pastore che le offre pane, formaggio e vino rosso. La ragazza lo segue fino a un paesino montano dove si offre di aiutare il parroco nelle faccende domestiche ricevendo in cambio vitto e alloggio.

Quasi due anni più tardi, colta dal rimorso, Maria decide di tornare a Lolai dalla figlia Teresa, ma per la bambina lei è solo una sconosciuta. Per di più, Margherita nel frattempo ha sposato Vincenzo ed è incinta. Vincenzo, ormai barbuto e irriconoscibile la spinge a terra, la schiaffeggia e la minaccia di morte mostrandole un coltello. Che reazione spropositata! Il porco ha forse paura che Maria racconti tutto alla sua signora panzona? Ecco cosa succede a restare zitti! Se Maria avesse spiattellato la verità a Margherita quand’era ancora una signorina, magari sarebbe riuscita a mandare a monte quell’odioso matrimonio di convenienza. Un essere spregevole come Vincenzo è meglio perderlo che ritrovarlo, ma non può farla franca. Deve soffrire, deve pagare. Un figlio si fa in due e l’unica vita rovinata non può essere solo quella della donna.

Terminato il flashback di Maria, la narrazione torna a seguire la vita della signora Murru, intenta a cucinare nella taverna mentre Rita serve ai tavoli. Da un po’ di tempo a Lolai lavorano due carbonai di un paesino montuoso al centro dell’isola, e uno di loro ha posato gli occhi su Teresa. Carlo pur sapendola sposata è così sfacciato da corteggiarla di fronte a tutti i clienti, non facendo che alimentare il fervore delle malelingue.

Quella stessa sera Bruno torna a casa dalla visita alla madre morente, ma il viaggio non ha fatto che aggravare la polmonite cronica di cui l’uomo soffre dai tempi in cui lavorava in miniera. Bruno esala l’ultimo respiro, preoccupato per la sorte che attende la moglie. Due giorni dopo viene celebrato il funerale e c’è già chi lo definisce un povero cornuto, addossando alla consorte colpe inesistenti.

Sei mesi dopo la morte di Bruno, l’imperterrito Carlo consegna una lettera a Teresa, al contempo infastidita e stuzzicata nella sua vanità. La donna però a malapena sa leggere e decide perciò di mostrare il foglio alla fidata amica Gavina.

È una dichiarazione d’amore, ma irruenta, spudorata e minacciosa. Carlo vuole che Teresa diventi sua moglie e che si decida in fretta, prima che lui perda la pazienza. I buoni presupposti del futuro femminicida ci sono tutti, direi.

Teresa non sa che fare con Carlo e Gavina allora le consiglia di ignorarlo, ma di respingerlo con fermezza qualora dovesse insistere. Teresa non è però così sicura di riuscire a non cedere.

Carlo, nel frattempo, si è rivolto persino al parroco, promettendogli una generosa offerta qualora fosse riuscito a convincere Teresa ad accettare la sua proposta di matrimonio.

Fallito anche il tentativo di persuasione dell’avido don Giuseppe, Carlo prova a violentare Teresa nella taverna, ma la sua ignobile azione è fortunatamente interrotta dal sopraggiungere del fidato tuttofare Tore.

A questo punto, la narrazione accelera bruscamente e il temuto tragico epilogo arriva fin troppo in fretta.

Dopo nove giorni di pioggia incessante, il sole torna a far capolino su Lolai e l’intero paese si reca a messa. Vedendo anche Teresa, lo spregevole don Giuseppe ne approfitta per indirizzare contro di lei la sua predica. Teresa ha tutti gli occhi puntati addosso e allora avanza verso il parroco, sputa in terra e se ne va.

Il resto del paese, invece, dopo la celebrazione raggiunge la foresteria, per partecipare al pranzo comunitario organizzato dai tre carbonai e annunciato dal parroco. Tommaso, infervorato dal socialismo di tziu Lodde, aveva avuto quell’idea qualche settimana prima, spinto da un’esigenza di adozione che il paese sembrava pronto a concedergli.

Mentre alcune donne sparlano di Teresa, Tommaso si intromette dicendo che è proprio quello l’argomento che devono affrontare e chiama con un fischio Carlo e Giovanni che, udendo il segnale, radunano tutti i presenti davanti a Tommaso che inizia quindi a parlare. Sciaguratamente, il capitolo si conclude repentinamente qui, con una cesura netta come un taglio d’accetta. Qual è il contenuto dell’arringa di Tommaso?

Carlo si introduce nottetempo in casa di Teresa insieme ai compagni di lavoro Tommaso e Giovanni, grazie alla finestra lasciata appositamente aperta dall’ingrata Rita, stipendiata da Teresa come cameriera e bambinaia, ma con la mente obnubilata dal fidanzato Giovanni.

I compaesani sentono dei rumori, ma non alzano un dito per aiutare l’invidiata Teresa, più bella e ricca di tutte ma disprezzata per non essersi limitata a essere moglie e madre. Ma cosa sanno esattamente? E cosa sperano di ottenere?

Carlo colpisce furiosamente Teresa di fronte agli occhi della figlia maggiore Maddalena. Il carabiniere Efisio conterà ben trentadue coltellate.

Uno dei complici spara a Tore e l’altro ha una sacca piena. Il primo pare essere Tommaso e il secondo Giovanni. Sono riusciti a mettere a segno il furto? Tore muore? Avrei preferito una narrazione più esplicita.

Tommaso e Giovanni raggiungono Carlo e il primo intima all’ultimo di fuggire. Maddalena riconosce Tommaso che allora la ferisce a un braccio con il coltello di Carlo e la minaccia affinché non racconti nulla. Maddalena non risponde, ma il suo sguardo dice che non tacerà.

L’autrice paragona il coraggio sfrontato della bambina a quello della madre, ma io non riesco proprio a farmi andare a genio Maddalena, ben ricordando l’episodio in cui la madre le dice di prendere due monete per farsi riempire una bottiglia di latte. Cosa fa l’ingorda Maddalena alla vista del tesoro di famiglia, una botte da oltre duecento litri riempita per due terzi con monete d’oro? Invece di afferrare solo due monete, ne trafuga altre quattro che le cadono poi inavvertitamente mentre paga il latte a Tonio, suscitando la curiosità dell’uomo al quale scioccamente conferma che la sua famiglia ha molto altro denaro ben nascosto in casa. Maddalena va via con il latte, ma poco dopo arrivano Elio e don Giuseppe e Tonio spiffera tutto.

Quel che è certo è che Teresa esala l’ultimo respiro tra le braccia della bruja Maria che finalmente le rivela di essere sua madre. All’ultimo istante, non uno prima, come il disinnesco di un ordigno nella trita sceneggiatura di un film d’azione.

Venticinque anni dopo, Maddalena incarica il figlio Minuccio di consegnare una cesta con pane e vino a Giovanni, appena tornato in paese dalla prigione.

Ma chi ha cresciuto Maddalena e i suoi due fratelli dopo l’assassinio della madre? Anche Carlo e Tommaso finiscono meritatamente in galera come Giovanni? E perché Maddalena decide di aiutare quest’ultimo dopo che ha scontato la sua pena? Le è bastato davvero così poco per perdonarlo? Diciamo che questo finale conciliante e buonista dopo tanta ferocia poteva tranquillamente essere evitato.

Mettere nero su bianco gli anni in cui si svolgono le vicende narrate, ispirate a fatti realmente accaduti per ammissione della stessa autrice, avrebbe inoltre giovato alla contestualizzazione dell’opera.

La rinnegata è tutto sommato un bel romanzo, ma troppi interrogativi restano aperti. Il finale meritava sicuramente maggiore chiarezza e approfondimento.

Voto: 3 su 5

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